Fabrizio Abrescia è, insieme alla moglie Manuela Veronesi, l’anima dell’associazione Medici per la Pace. La Onlus opera da vent’anni concentrandosi sui diritti, specie legati alla sanità, di persone non abbienti o appartenenti a minoranze spesso discriminate. Lo fa con estrema trasparenza mantenendo fortissimi legami, fattivi ed efficaci, con Verona, la città dove risiede e opera senza per questo limitare il proprio raggio d’azione che copre molte nazioni del mondo.
Una parte di donatori ha iniziato a interrogarsi in maniera più approfondita: oggi selezionare il destinatario della donazione è diventato un gesto ponderato, soppesato e scelto con maggiore convinzione.
Come nasce Medici per la Pace?
Medici per la Pace è un’Organizzazione di Volontariato nata a Verona nel 2002 da un’idea semplice ma fondamentale: rendere la salute un diritto di tutti, senza alcuna distinzione di nazionalità, etnia, cultura, sesso e religione. Proprio quest’anno l’associazione compie i vent’anni di attività. Una buona occasione per un momento di riflessione. L’idea di fondare un’associazione di volontariato è nata da un suggerimento ricevuto dall’allora delegazione italiana di Médecins du Monde, con sede a Milano, che cercava chi si facesse carico di implementare un progetto sanitario di comunità nella pianura gangetica indiana, e precisamente a Kampil, nei pressi di Kamganj, in Uttar Pradesh. Poteva sembrare un progetto troppo ambizioso per una neonata associazione, e forse effettivamente lo era, ma grazie a una serie di fortunate circostanze, siamo riusciti a portare avanti per i previsti quattro anni questo nostro primo progetto internazionale e a garantirne la sostenibilità successiva. A proposito delle origini e della genealogia di Medici per la Pace, mi piace ricordare che la nostra associazione deriva direttamente dalla Croce Rossa Internazionale, attraverso due passaggi intermedi, rappresentati prima dalla nascita di Médecins sans Frontières e poi di Médecins du Monde. Medici per la Pace, nei sui primi anni di attività, ha avuto infatti come riferimento quest’ultima associazione, cui siamo tuttora molto legati. Il nome “Medici per la Pace” riassume il pensiero che anima il nostro lavoro quotidiano. Riteniamo che la pace non sia un dono ma, piuttosto, una difficile conquista e che l’unico strumento che permetta di conseguire una pace vera e duratura si chiami giustizia. Non è dunque un caso che la massima di Medici per la Pace sia “Dai diritti alla salute”, riferita al concetto di giustizia applicato all’ambito sanitario.
Il nostro non è un appello a gesti caritatevoli e compassionevoli, ma il riconoscimento e il rispetto di tutti i diritti inalienabili di ciascun essere umano, tra cui il diritto alla salute. Riconoscendo nell’altro (indipendentemente da colore della pelle, nazionalità, lingua, sesso e orientamento sessuale, credenze religiose e tutte le altre apparenti diversità) un soggetto a noi equivalente e titolare di precisi diritti, compiamo il primo irrinunciabile passo per avvicinarci a questa persona su di un piano di parità: questo ci consente di costruire una alleanza tra eguali, la sola da cui possa scaturire una reale cooperazione. Ovunque Medici per la Pace ha realizzato degli interventi professionali, dagli slums di Kolkata ai campi rom delle nostre città, si è sempre uniformato a questo principio e, nel corso del processo, noi tutti abbiamo davvero imparato molto.
Qual è il ruolo che lei ricopre in questa organizzazione?
Sono un volontario, nel senso più stretto del termine. Dedico all’associazione Medici per la Pace gran parte del mio tempo libero, che in realtà è ben poco. L’impegno comporta naturalmente notevoli rinunce sul piano della vita privata. Questo mi è stato reso possibile solo dal fatto che mia moglie, Manuela Veronesi, ha sempre condiviso i comuni obiettivi e valori, e che lei stessa assume rilevanti responsabilità all’interno dell’associazione. Si tratta d’altra parte di una scelta: a fronte degli inevitabili sacrifici vi sono grandissime soddisfazioni sul piano umano, della testimonianza di valori e delle esperienze di vita. Esattamente vent’anni fa sono stato uno dei membri fondatori di Medici per la Pace, e ne sono attualmente Presidente. Pur tra i molti impegni lavorativi, seguo giornalmente le attività che vengono svolte presso l’ufficio di coordinamento e ho la responsabilità del corretto sviluppo della direzione strategica e operativa dell’organizzazione, così come definita dai componenti del Consiglio Direttivo.
Come nasce la sua passione per il terzo settore?
Dall’indignazione. Una sincera indignazione verso le ingiustizie sociali. Indignazione che ho provato moltissime volte e che si accende anche di fronte a episodi apparentemente banali. Come quando a Verona, in un insediamento rom, una bambina mi è corsa incontro per mostrarmi una tastiera di computer, cui mancavano molti tasti, dicendomi, al massimo della felicità infantile: «Me l’ha regalata mio papà, l’ha raccolta in un cassonetto»; o a New Delhi, quando a una mendicante Dalit, una intoccabile, non avendo trovato null’altro nelle mie tasche, ho regalato un tubetto di crema per la pelle, rendendomi subito conto di quanto inutile e involontariamente offensivo fosse il mio gesto; o a Yangon, quando dal buio della notte è emerso un bambino di sette-otto anni che per mantenersi vendeva dolci ai passanti, e che non avrebbe mai dovuto trovarsi, da solo, in quel posto, in quell’ora a fare quello che stava facendo; o quando ancora, in Uttar Pradesh, invitato a un matrimonio tradizionale, ho preso sulle mie ginocchia una bimba, rendendomi improvvisamente conto che le sue gambe (nel terzo millennio!) erano devastate dalla poliomielite. E ricordo tanti altri episodi, in tanti infelici angoli del mondo.
Quali sono progetti e iniziative principali dell’organizzazione?
Al momento della sua fondazione, Medici per la Pace aveva una vocazione prettamente internazionale. Questo è dipeso in parte dalle circostanze, in parte dalla concezione cosiddetta terzomondista prevalente allora. E, a essere sinceri, anche da una certa propensione per l’esotismo e l’avventura da parte dei suoi soci fondatori. Come le persone, anche le associazioni attraversano periodi di entusiasmi giovanili e poi maturano nel tempo, con l’esperienza e nel confronto con la realtà. Le nostre attività internazionali hanno avuto inizio in India (Uttar Pradesh e Jarkhand) per poi estendersi ad altre nazioni asiatiche limitrofe, e in seguito ad altri continenti. Nei primi anni sono stati così realizzati progetti di cooperazione allo sviluppo in Asia (India, Nepal, Myanmar, Cambogia), quindi in Sud America (Ecuador) e in Africa (Kenya, Rwanda). In queste prime esperienze abbiamo avuto la modestia (e direi l’intuizione) di renderci disponibili a imparare tutto il possibile dai nostri partner locali, capovolgendo un certo tipo di logica, superando anche lo schema di cooperazione definito South to South, e divenendo in qualche modo allievi dei nostri stessi beneficiari, dai quali abbiamo appreso bisogni, priorità e metodologie. Le nostre aree di intervento hanno spaziato dal supporto socio-sanitario alla salute materno-infantile, dall’emergenza umanitaria alla formazione professionale. L’impegno di Medici per la Pace sul territorio nazionale è iniziato più tardi, nel 2006, quando l’associazione è stata scelta dal Comune di Verona per dare una risposta alle gravi condizioni igienico-sanitarie della comunità rom locale. Questa esperienza di lavoro si è poi ampliata, in modo naturale, all’offerta, prevalentemente a Verona e nelle province limitrofe, di supporto sociosanitario a persone che si trovavano per diverse ragioni in condizione di grave marginalità.
La crisi economica iniziata nel 2009 e, più recentemente, la pandemia da Sars-CoV-2 ci hanno visti sempre più impegnati sul territorio. La pandemia in particolare ha reso più urgenti e diffusi bisogni che prima riguardavano una parte limitata della popolazione. Oggi, a vent’anni dalla sua nascita, Medici per la Pace opera in Italia su quattro settori prioritari: l’odontoiatria sociale, l’assistenza sociosanitaria alle persone in stato di grave vulnerabilità, il contrasto alla povertà educativa e il sostegno alla terza età. Stiamo inoltre lavorando per replicare anche in altre province italiane, e in un prossimo futuro anche all’estero, alcune efficaci metodologie di intervento a favore delle persone senza dimora testate a Verona. La nostra sfida è quella di trovare modi innovativi di rispondere alle necessità, integrando tra loro ambiti e competenze eterogenei, costruendo e rafforzando il dialogo con i partner pubblici e privati, cercando di ridurre il più possibile le distanze tra i servizi e le persone. All’estero, oltre a proseguire le attività in alcuni dei Paesi già menzionati, abbiamo negli anni avviato e sviluppato progettualità anche in Est Europa (Romania, Serbia), in Bangladesh e in Giordania. Tra i diversi progetti, mi è particolarmente caro quello che abbiamo sviluppato in Bangladesh, al confine con il Myanmar, a favore dei rifugiati Rohingya, una etnia ferocemente perseguitata dalla dittatura birmana. Recentemente abbiamo ripreso a lavorare in Ecuador, dopo una pausa di alcuni anni, con un progetto biennale sulla nutrizione e la salute materno-infantile a favore della etnia indigena amazzonica degli Shuar.
Qual è l’esperienza con il digitale nella raccolta delle donazioni?
Personalmente ritengo che sia un aspetto fondamentale nella sostenibilità delle attività di una associazione di volontariato. Purtroppo, al momento la nostra esperienza con il digitale è limitata perché, nella necessità di mantenere contenuti i costi di gestione e la volontà di destinare la maggior parte di quanto raccogliamo ai progetti, non riusciamo a dedicare tutto il tempo che sarebbe richiesto da una strategia digitale strutturata. Lo sviluppo tecnologico e le modalità e le forme di presenza sulle piattaforme online evolvono giornalmente e richiedono un impegno a tempo pieno, per il quale sarebbe utile avere professionalità dedicate. Per ora sopperiamo a questa mancanza con le tradizionali attività di comunicazione e raccolta fondi face-to-face: incontrando le persone sul territorio, organizzando eventi solidali, raccontando il nostro operato e i princìpi che lo animano nella nostra vita quotidiana. In questo sono di grande aiuto i nostri volontari, che raccontano in prima persona cosa significa impegnarsi per rendere davvero la salute un diritto di tutti e perché è così importante continuare a farlo. Soprattutto in questi ultimi mesi, a causa dell’isolamento fisico e psicologico che tutti noi abbiamo vissuto, stiamo notando un forte bisogno di dialogo e di relazione diretta. Credo sarà importante dedicare spazio e tempo a questa componente anche in futuro, affiancandola alla pur fondamentale strategia digitale.
Cosa pensa della trasparenza delle ONLUS?
Nel loro insieme, a livello nazionale, tutti gli Enti del Terzo Settore hanno sofferto della comunicazione negativa e spesso grossolana che è andata aumentando negli ultimi decenni e ha raggiunto il suo culmine durante la crisi dei rifugiati e migranti: l’opinione pubblica ha una tendenza innata alla semplificazione e parlare di cooperative, associazioni, ONLUS, ONG, nella mente del pubblico è dire la stessa cosa. Le critiche talvolta giustificate avanzate sulla gestione amministrativa, economica e operativa di alcuni enti sono ricadute a pioggia su tutto il settore, danneggiandone l’immagine e diminuendo la fiducia nella solidarietà in ogni sua forma (spesso ci sentiamo dire: «Non dono più nulla, perché non so dove vanno a finire i miei soldi»). Tuttavia, non tutto il male vien per nuocere: da un lato, una parte di donatori ha iniziato a interrogarsi in maniera più approfondita, e la selezione del destinatario della donazione è così diventata un gesto ponderato, soppesato e scelto con maggiore convinzione, mentre dall’altro le organizzazioni stesse sono state spinte a interrogarsi maggiormente sulla trasparenza e sui modi per garantirla e comunicarla al pubblico.
Cosa pensa della Responsabilità Sociale delle Imprese?
Ritengo che l’attenzione crescente delle imprese verso la Responsabilità Sociale sia non solo etica ma anche fondamentale per la crescita delle comunità, e questo per due ragioni. In primo luogo, accorcia le distanze tra il mondo profit e il mondo no-profit in un momento di grande cambiamento nel quale le modalità di fare solidarietà, sia a livello locale sia a livello di cooperazione internazionale, hanno bisogno di essere ridisegnate per poter essere realmente sostenibili nel tempo. La collaborazione reale tra le imprese e il Terzo Settore, lo scambio di approcci e di punti di vista, aiutano lo sviluppo reciproco e lo rafforzano. In secondo luogo, la Responsabilità Sociale permette alle imprese di condividere risorse specifiche e di metterle al servizio della comunità per fini di utilità sociale in moltissimi ambiti: tecnico e tecnologico, gestionale, logistico. Queste competenze e risorse sarebbero altrimenti inaccessibili per gran parte delle organizzazioni, in particolare per quelle di dimensione medio-piccola così diffuse e attive sul nostro territorio.
Che esperienza ha di imprese che gestiscono le problematiche d’impatto sociale ed etico al loro interno e nelle zone di attività?
Conosco in modo diretto molte aziende del territorio veronese che si impegnano attivamente nella gestione del loro impatto sociale: alcune di esse costituiscono un esempio e un modello a cui altre potrebbero ispirarsi. Riterrei utile creare maggiori occasioni di incontro tra le aziende e gli enti no-profit che lavorano sui medesimi territori, così da consentire reciproca conoscenza, scambio di idee e avvio di fruttuose collaborazioni.