Alessandro Di Donna è fondatore e presidente di Soulfood Forestfarms, impresa sociale impegnata ad aiutare i milanesi a riscoprire una vocazione rurale. La sua associazione – in collaborazione con realtà del terzo settore – sta recuperando alcuni ettari di terreni pubblici nel Parco agricolo della Vettabbia, tra il quartiere Corvetto e l’Abbazia di Chiaravalle. Usando metodi naturali, senza fertilizzanti chimici né pesticidi.

Alessandro Di Donna (Ph. Paolo Robaudi)
Come nasce Soulfood Forestfarms?
Soulfood Forestfarms – spiega Di Donna – è un soggetto che si occupa di sperimentazione scientifica e fornisce servizi agrosistemici e culturali, in collaborazione con l’università di Milano. Ci muoviamo nella scia di un percorso avviato nel 2017 per sostenere aziende agricole innovative che vogliono andare verso il modello del carbon farming: stoccare e sequestrare carbonio, producendo servizi ecosistemici per il territorio e beni primari. Oltre a offrire un servizio di progettazione e implementazione di sistemi agro-forestali e rigenerativi, il mio ruolo è anche quello di spiegare la differenza tra ciò che realmente facciamo e il sistema di riforestazione greenwashing, un metodo che rischia di sminuire le nostre attività scientifiche e culturali. Mentre la parte di riforestazione la possono fare un po’ tutti, capire invece come funzionano le piante per produrre cibo è un discorso molto più ampio e complesso. Bisogna studiare come funziona la filiera, il piano economico, la sostenibilità con il quale un sistema poli-culturale si deve interfacciare e così via.
Quali sono i progetti e le iniziative principali della Onlus?
Quello sulla Vettabbia è il principale. Nell’ottica di rigenerare i terreni e renderli un’opportunità economica, sempre in zona abbiamo iniziato a collaborare con Davide Longoni per poter trasformare i suoi terreni, da semplice monocultura di farro e segale in sistemi complessi dove si aggiungono dei filari arborati. Un altro grosso progetto in cui siamo consulenti per l’avviamento si chiama “Tuetera”, a Inverigo fra Monza e Lecco. Una proprietà di 200 ettari con una produzione che riguarda la filiera delle piante ornamentali coltivate in maniera naturale e la filiera dei principi attivi, le piante officinali. La proprietà è una ex industria farmaceutica, che sta gestendo il suo business nella sostenibilità e nella rigenerazione territoriale. Altri piccoli progetti satellite stanno partendo: uno in zona Treviglio, un altro piccolino a Bologna.

Panoramica di Tuetera, Inverigo
Qual è l’esperienza nella raccolta delle donazioni?
Il canale principale è il passaparola di persone che sono venute qua in Vettabbia. Oppure aziende e soggetti che ci hanno conosciuto tramite i social e poi ci hanno contattato. Sul nostro sito web apriremo una sezione dove ognuno potrà adottare il proprio albero: se arriveremo a quota 20mila, potremo abbattere i costi di gestione e avviare il progetto culturale come una grande aula a cielo aperto. Fra i nostri propositi c’è l’idea di chiedere al Comune di Milano altri terreni da recuperare, sbloccando così un patrimonio collettivo. Per mezzo secolo questa metropoli è stata guidata da un modello esclusivamente industriale: ora – anche grazie all’Expo – il dibattito si è allargato alla sostenibilità, all’innovazione legata al food. Non è più possibile continuare a importare le pere dall’Argentina: pensate a quanta CO2 potremmo abbattere nel tornare a produrle nei campi sotto casa, in piena area metropolitana. Il modello del “farming” globale è superato, il mondo ce lo chiede, l’ambiente ce lo chiede: basta con il cibo prodotto in serre che stanno dall’altra parte del mondo. Quel modello non è più sostenibile. Pensiamo invece a infrastrutture ecologiche con animali che producano uova e formaggi, al recupero di terreni abbandonati e inquinati applicando le tecniche del sottobosco rigenerativo. Di fatto, un ambiente olistico con la forza della natura al servizio dell’uomo e dell’uomo al servizio della natura.
Cosa ne pensi della trasparenza nelle ONLUS?
Ciò che esiste non è abbastanza. Mi piacerebbe un sistema di certificazione con controlli e verifiche dei progetti: come vengono svolti e sviluppati, quando e come vengono conclusi, che tipo di investimenti vengono fatti nelle risorse umane… Non basta piantare alberi, l’etica non si conquista a parole. Anche la semplice trasparenza sui bilanci è un problema: occorre un sito pubblico sul quale trovare tutta una serie di parametri che descrivono la singola onlus. Basterebbe istituire una task force di tecnici del Comune di riferimento – composta da persone che non abbiano conflitti di interesse – che controllino e garantiscano il lavoro delle imprese. Purtroppo siamo pieni di aziende che usano la CSR per darsi un’immagine ma poi dietro le quinte non pagano i lavoratori come meriterebbero: tutto questo alimenta una competizione fuori mercato e penalizza chi invece vorrebbe fare le cose per bene.

Photo: Paolo Robaudi
Le imprese che ruolo dovrebbero avere?
Le aziende che muovono risorse e capitali dovrebbero collaborare alla crescita della società e non pensare esclusivamente al profitto: a cosa servono le campagne pubblicitarie “cool” che costano milioni solo per raccontare la piantumazione di un tot di alberi? Penso invece a imprenditori come Adriano Olivetti che si impegnavano a progettare il lavoro ma anche la socialità dei propri dipendenti/cittadini. Nascevano sempre nuovi spazi da riempire, il tempo sociale era un bel modo per disegnare un futuro equo e sostenibile per tutti. Anche nel nostro settore bisognerebbe dare sostanza alla filiera virtuosa tra pubblico, privato e terzo settore. I progetti di compensazione sono ampi e complessi, coinvolgono più attori in diversissimi settori: è fondamentale costruire una nuova cultura intorno a tutto questo.
Photo cover: Alice Giulia Dal Borgo