Alessandra Corradi potrebbe essere definita, prosaicamente, “madre coraggio”. Sì, perché si ritrova a gestire quotidianamente una situazione complessa che riguarda suo figlio, uno dei grandi amori della sua vita. Ma non fa solo questo, visto che ha fondato e porta avanti con coraggio Genitori Tosti, associazione composta da chi, come lei, sa come affrontare situazioni complesse che riguardano un famigliare. Una visione completa, la sua, sul terzo settore e sulla responsabilità sociale delle imprese: che non è così rosea come a volte si vorrebbe far passare.
Come nasce Genitori Tosti?
Nasce dal bisogno, come genitore, di avere sostegno, informazioni utili, margine di negoziazione e laboratorio di buone prassi. In Italia se ti nasce un figlio con disabilità sei completamente abbandonato a te stesso, non esistono servizi e manca la cultura dell’accoglienza, dell’inclusione. Così nel 2007, esattamente 15 anni fa, ho iniziato a cercare e unire genitori come me, attraverso il web. Avevamo un forum come piattaforma, perché i social dovevano ancora prendere piede in Italia. Da lì, dopo alcuni anni di gruppo informale, ho deciso di fare il passo e fondare un’associazione, che non significa solo registrare all’ADE un pezzo di carta, ma significa creare, attraverso la condivisione di principi e obbiettivi racchiusi nello statuto, una comunità consapevole dei propri diritti. Se ci facciamo caso tutte le associazioni sono concentrate su una categoria, una patologia/sindrome, quasi nessuno invece si occupa dei genitori delle persone con disabilità, come se nemmeno esistessero.
Qual è il ruolo che lei ricopre in questa onlus?
Sono la rappresentante legale, cioè la presidente.

Alessandra Corradi
Come nasce la sua passione per il terzo settore?
A 25 anni la mia vita ha subito un grosso trauma: di colpo, tutto quanto era il mio vissuto e il mio tran tran, fu mandato in frantumi dall’inaspettata e prematura morte di mia madre. Lasciai l’università, anche perché non potevo più permettermela economicamente, e mi iscrissi ad un corso FSE per imparare un lavoro, diventare operatore turistico, in telelavoro però. Stiamo parlando della fine degli anni ’90 del secolo scorso, il lavoro da remoto che adesso si chiama smart working, era come andare in missione su un’astronave… Per tutta una serie di fortuite coincidenze, finii a dirigere la segreteria di una grossa OdV cittadina, rimasta completamente senza volontari. Mi ritrovai nel terzo settore “puro”. Non era un lavoro, non ero stipendiata, ma tenevo duro perché mi piaceva molto quello che facevo e come potevo farlo. Nel contempo frequentavo anche la scuola permanente del CSV, per cui acquisii una competenza notevole e specialistica. Quando decisi di avere un figlio fui costretta a cercarmi un reddito e, nonostante il curriculum, tutto quello che trovai fu un impiego di cassiera in un supermarket, durante il periodo natalizio. Poi la sorte decise per me sul mio amore per il volontariato: mi ha dato un figlio con gravi e multiple disabilità e il mio carattere ha fatto il resto.
Quali sono progetti e iniziative principali di Genitori Tosti?
Con la riforma del terzo settore non siamo più Onlus, status che è destinato a scomparire. Adesso siamo un’”Associazione di promozione Sociale”. Abbiamo un grosso progetto che si chiama Barriere mai più e con ciò che arriva dal 5×1000 o dalle elargizioni liberali, finanziamo interventi per rimuovere le barriere di ogni tipo o realizziamo progetti di accessibilità o doniamo ausili e attrezzature necessari alla bisogna. Cerchiamo anche di collaborare con i comuni per il PEBA (Piano Eliminazione Barriere Architettoniche), cosa alquanto difficile dato il digiuno totale degli amministratori in materia. Poi abbiamo una bellissima campagna finalizzata a mettere nero su bianco un protocollo per rendere accessibili i concerti e in generale gli eventi dal vivo. Non è davvero tollerabile la discriminazione verso le persone con disabilità in questo settore, nel terzo millennio! Abbiamo poi un progetto che facciamo con le scuole di Lodi e la campagna, ciclopica, sulla figura del caregiver familiare. Addirittura il parlamento europeo ha accolto la nostra petizione a fronte invece del muro di gomma che ha eretto il nostro Governo sull’argomento. Chiediamo che il caregiver (che ha una definizione giuridica nel nostro ordinamento) sia riconosciuto come lavoratore.
Abbiamo anche da poco pubblicato un saggio sull’argomento, che raccoglie tutto quello che la gente dovrebbe sapere. Molti non sanno nemmeno di esserlo, caregiver, e quindi ignorano anche i diritti connessi. Abbiamo poi tutte le attività connesse al riconoscimento e statalizzazione dell’ASACOM, che è quella figura professionale che permette agli studenti ciechi, sordi o con difficoltà/assenza di linguaggio di imparare a leggere/scrivere e comunicare e quindi apprendere a scuola e poter fare il proprio percorso, magari anche fino all’università. Le attività ordinarie invece riguardano la volontà di rispondere alle richieste di aiuto che ci arrivano dalle famiglie per la scuola, l’accesso alle cure, gli ausili, lo sport e aderire alle collaborazioni che ci propongono. Tutti gli anni facciamo il convegno per il 3 dicembre (giornata internazionale per i diritti delle persone con disabilità) a Lodi. Poi abbiamo realizzato un prototipo di “bagno 4all” (molti di noi sono architetti). Deve sapere che tante persone non possono usufruire delle toilette “normali” ma hanno bisogno di piccoli accorgimenti di cui nessuno si cura mai. Eppure, con poco, si può realizzare un bagno che davvero tutti possono usare. Abbiamo, infine, nel cassetto un bellissimo progetto (iniziato nel 2016) di rigenerazione urbana di uno spazio di aggregazione pubblica in chiave accessibile, che genererebbe non solo beneficio sociale ma favorirebbe anche il lavoro tra le categorie più svantaggiate e darebbe impulso alle arti e alla cultura in generale. Oltre che offrire un polmone verde tra i palazzoni delle periferie nelle aree degradate.
Qual è l’esperienza con il digitale nella raccolta delle donazioni?
Non siamo mai stati uno di quegli enti impostati sulle raccolte fondi a ripetizione oppure nella sistematica “ricerca di donazioni” e quindi non ci siamo mai specializzati nelle tecniche di raccolta “in presenza”. Di conseguenza non le abbiamo tradotte in versione elettronica. C’è il 5×1000 che è mezzo straordinario e che premia chi lavora bene e quindi si costruisce una credibilità oggettiva, che può essere trasmessa tra amici/conoscenti/parenti. Per gli enti come il nostro che non gestiscono nessun servizio o si dedicano ad attività “commerciali” ma puntano tutto all’attivismo e a portare a casa i risultati, tutta la parte marketing è una pratica assolutamente estranea. Noi raccogliamo firme e adesioni per le iniziative, mettiamo insieme la gente e le idee più che i soldi. Siamo presenti praticamente al 95% sul web, perciò tutto quanto ci arriva è grazie al web. Per la nostra particolare condizione di genitori assistenti, spesso di persone anche allettate, non abbiamo molta possibilità di uscire e quindi per noi il web è un grandissimo aiuto, anche sociale.
Cosa pensa della trasparenza nelle Onlus?
La domanda giusta da porre sarebbe “Perché, secondo lei, hanno cancellato l’unico organo di controllo sulla trasparenza delle Onlus che era l’Agenzia per le Onlus?”. Si spera che con la riforma e quindi il registro unico sia possibile verificare in tempo reale se un’associazione abbia tutte le carte. Purtroppo l’ignoranza da parte della gente sul mondo delle associazioni è enorme: l’esempio più banale riguarda l’iscrizione, che quasi tutti pensano che sia annuale e poi scada e invece no. Per uscire dall’associazione è necessario dare comunicazione. In questo modo c’è il fenomeno dei morosi che arrecano non poco danno agli enti: tutte le quote sociali annuali dei morosi sono voci passive nel resoconto finanziario annuale (erroneamente chiamato “bilancio”, per ribadire quanta confusione regni in merito).
Esistono enti che per legge hanno ingenti finanziamenti pubblici che compensano tranquillamente questi passivi e tacciono sui morosi, che magari si trascinano da decenni. Così figurano di avere un tot numero di soci il che gli permette di accedere ai tavoli istituzionali e agli osservatori ecc; in un ente come il nostro avere anche solo 50 soci morosi è un bel danno. Poi, altro caso frequente: per legge qualunque associazione deve chiedere una quota di iscrizione, eppure ci sono casi di associazioni che con iscrizione gratuita, che poi figurano avere migliaia di soci e quindi un certo peso, ma magari non fanno nemmeno l’assemblea annuale né dichiarano un resoconto finanziario perché “non hanno entrate”. Sconfiniamo nel comico. Poi ci sono i casi da reato grave (cito per esempio quello che è stato lo scandalo più grande a livello Veneto e cioè il caso di Ca’ della Robinia) che, quando vengono scoperti, creano scandalo e gettano discredito sulla categoria, alimentando quella falsa credenza per cui le associazioni sono solo grandi truffe. Aggiungiamo al panorama che moltissimi per eludere tasse e spese, invece di aprire un’attività, aprono un’associazione. Il caso classico è il bar. Ma succede anche con le scuole, cioè con chi propone corsi travestito da associazione, così guadagna senza versare le tasse. Mancano i controlli e anche la gente deputata a controllare: speriamo, quindi, che tutta questa dubbia fenomenologia scompaia con la riforma.
E quando parliamo di Responsabilità Sociale delle Imprese?
Caspita che argomento complesso! Sarò monotona ma il nostro Paese è davvero arretrato e non preparato in materia. Il concetto di profit legato al sociale è totalmente estraneo alla nostra cultura che è fondata sull’elemosina piuttosto che sulla filantropia. In generale, nemmeno a livello politico siamo evoluti nel sociale. Che, appunto, non significa fare l’elemosina attraverso il finanziamento di una legge per cui si destina un fondo miserrimo per una platea di beneficiari enorme. Né tantomeno l’evento in pompa magna una tantum. Significa predisporre tutta una serie di servizi pubblici e interventi permanenti dopo aver fatto studi e rilevazioni scientifiche sull’argomento, oltre che esserti avvalsi del contributo di esperti e diretti interessati. Faccio un esempio che conosco bene: come fa il Governo italiano ad approvare una legge sui caregiver familiari se non conosce il numero di questa categoria e, cosa più importante, le tipologie che la compongono? Quindi che tipo di stanziamento finanziario serve effettivamente per avere una legge efficace e non il solito meccanismo “lavacoscienza” per cui si è fatta la legge e quindi tutto è a posto? Pensare che in un settore delicato come il welfare sia sufficiente erogare un bonus mensile, calcolato in base a tot criteri da ragioniere, significa davvero essere rimasti all’epoca dei dinosauri.
Per ritornare alla sua domanda: quelle poche volte che ho provato a coinvolgere delle imprese, grandi aziende, in progetti a impatto sociale, per cui l’azienda avrebbe avuto un ritorno di immagine non indifferente a fronte di un investimento davvero minimo, ho ricevuto solo dei bei “No”. Poi magari investono milioni in campagne pubblicitarie bellissime ma che non impattano sulle persone e quindi nella realtà, nella società.
Photo cover: Giacomo Albertini