Intervista a Francesca Vecchioni, presidente della fondazione nata dieci anni fa per diffondere la cultura della diversità. «Ci battiamo contro il pregiudizio e per una corretta narrazione dei temi della D&I. Quando crei un ambiente inclusivo, sei in grado di attirare talenti».
Diversity nasce come no profit nel 2013, per portare impegno, ricerca e monitoraggio sulle tematiche dell’inclusione e della diversità (di genere, etnia, religione, disabilità…) sia in campo mediatico che di politiche aziendali legate al lavoro e alla sua organizzazione interna. Aderire ai valori dell D&I e promuoverli è prima di tutto una responsabilità civile e sociale e per aziende, brand e media è oggi anche una responsabilità di impresa. «Soprattutto è un’opportunità» come ci spiega nell’intervista Francesca Vecchioni, presidente della Fondazione Diversity, che con il suo progetto si fa anche promotrice di una serie di iniziative per incentivare lo sviluppo di idee e prodotti sempre più sostenibili dal punto di vista dell’inclusione.

Francesca Vecchioni
Credit: Jordy Morell
Come è maturata già quasi dieci anni fa l’idea di creare un progetto che portasse in primo piano la diffusione e valorizzazione della diversità e della cultura dell’inclusione? E che fosse anche osservatorio e centro di ricerca sui media, capace di offrire consulenza alle aziende sui temi della D&I?
Diversity nasce 13 anni fa in un contesto dove non c’erano altri progetti simili. Esistevano già alcune no profit che si occupavano di lavoro contro le discriminazioni, ma non c’erano realtà che che lavorassero su questi temi con una metodologia strutturata e integrata, creando connessione tra mondo accademico e della ricerca, che curassero l’analisi dei dati e l’aspetto della comunicazione. La nostra peculiarità è stata quella di occuparci di servizi capaci di agire sull’immaginario collettivo, partendo dal principio che i pregiudizi basano la loro forza sull’ambiente, e l’ambiente è anche il linguaggio, ovvero come si raccontano le cose, o il modo in cui ci immaginiamo che siano. Abbiamo creato un percorso per affrontare questi temi come grandi opportunità, cercando di trasformare un immaginario considerato in parte in maniera negativa fino a qualche tempo fa in un immaginario positivo, di opportunità e perché no anche come investimento.
A che punto sono le aziende italiane? Hanno iniziato a definire nuovi modelli e linee guida per valorizzare i temi della diversità e dell’inclusione?
Dare una risposta univoca è complesso perché bisognerebbe fare un discorso in particolare sulle economie di piccole e medie imprese, dislocate su un territorio ampio e con diverse urgenze. In particolare le multinazionali, che hanno branch in Italia e all’estero, già fanno la differenza e la fanno anche nei mercati. La realtà dei fatti è che mentre qualche anno fa erano poche le aziende che investivano su queste attività, oggi sono molte le ricerche che comprovano l’importanza dei temi della D&I per orientare anche le strategie di business: dunque non è più un’attività che si fa esclusivamente per piacere o per etica.

Francesca Vecchioni, Diego Passoni, Marina Cuollo
Credit: Virginia Bettoja
Il principio di fondo dei nostri progetti si basa sulla cultura dell’inclusione perché siamo un ente del terzo settore, ma questo non significa che non abbiamo ben chiaro che la leva che muove questa attività è anche quella del business dei brand. È importante che i brand comprendano che si devono muovere con celerità in questa direzione, perché ci vuole del tempo per realizzare una trasformazione, esattamente come lo è stato per la digital transformation. Non si può lavorare attraverso delle attività posticce, per questo noi attuiamo dei percorsi esperienziali di media e lunga durata.
Ciò non significa che non si possano fare attività spot sia interne che esterne, ma il sistema di riferimento e soprattutto le comunità, che oggi sono molto attente, se ne accorgono immediatamente. Come accade per il Green washing, esiste il termine Diversity washing quando si fanno attività di facciata. Per noi è importante prendersi il tempo di fare ascolto, di capire che tipo di organizzazione sia, quali sono i suoi obiettivi. Ci sono organizzazioni che pensano di essere a un certo livello di maturità, ma poi finiscono per rendersi conto che la D&I è un mondo complesso, che serve a dare valore all’azienda. Oggi non sei in grado di attirare talenti, di selezionarli, e di farli crescere se non crei un ambiente che sia davvero strutturato in tal senso.
Come si coniuga il messaggio di inclusione a un ritorno di profitto o comunque a un’idea di investimento per il brand? In che modo accompagnate le aziende verso un percorso di cambiamento di mindset e una nuova visione delle differenze come valore e risorsa?
Il punto è proprio questo. Intanto ci vuole un ascolto reale di queste tematiche dal momento che vanno a proporre dei cambiamenti: non possono essere applicate come uno standard, come un format. Devono, al contrario, poter agire sulle peculiarità delle aziende, sulle loro esigenze. Quando si deve fare un lavoro orientato in tal senso, è bene avere una consulenza che faccia delle proposte senza condizionare le scelte del brand, ma che ne comprendano le esigenze e le radici profonde. In questo modo ci è possibile individuare una strategia di cambiamento efficace e coerente, misurabile nel tempo. Che possa di fatto mostrare l’efficacia reale della Diversity e a cui possa seguire un’efficace attività interna che garantisca continuità al processo di trasformazione.
Tra i vostri partner ci sono aziende multinazionali – come Google, American Express, Ikea – e istituzioni universitarie e centri di prestigio internazionali (Commissione europea, Ambasciata del Canada, Università degli studi di Milano). Riscontrate un uguale interesse nelle attività di consulenza anche da parte delle PMI e nella conduzione di ricerche da parte di istituzioni minori e più locali?
C’è una richiesta molto eterogenea. Naturalmente abbiamo iniziato dalle aziende con una visione internazionale: pensiamo a Netflix, a Google ed Enel. La verità è che noi lavoriamo anche, e a maggior ragione, con imprese medie e piccole. Spesso quando un’azienda si approccia a questi temi per la prima volta, vuole farlo adottando una strategia mirata in tutte le aree della diversity. In questi casi il salto di qualità nella comunicazione e gestione della strategia può essere significativo.

Francesca Vecchioni
Credit: Jordy Morell
Tra i vari progetti a cui avete dato vita attraverso la no profit Diversity mi hanno colpito la “Lega del lieto fine”, i “Racconti (D)istanti” e il Glossario. La narrazione, il linguaggio e l’educazione verso un corretto utilizzo, sembrano essere alla base di queste iniziative. Quali sono gli strumenti che Diversity mette in campo per sensibilizzare e diffondere la cultura dell’inclusione tra i giovani?
Anche quando si lavora con le aziende è fondamentale creare connessioni e sinergie che vadano oltre il mondo aziendale. Faccio un esempio concreto di un lavoro che stiamo portando avanti con le categorie sotto rappresentate in alcuni ambiti lavorativi, e dunque con meno opportunità di occupazione negli stessi. Nel caso in questione parliamo del mondo della Industry della serialità tv e del cinema. Abbiamo collaborato con la società di doppiaggio 3Cycle di Marco Guadagno per un importante progetto sul doppiaggio inclusivo realizzato con il sostegno di Netflix. Si tratta di un corso di perfezionamento di doppiaggio e adattamento in cui, per la prima volta in Italia, sono stati inserite lezioni sui temi della diversity & inclusion con docenti provenienti dal mondo dell’attivismo.
Nella call to action sono stati inoltre coinvolti talenti di gruppi sotto rappresentati, con particolare attenzione all’etnia, alla disabilità e all’identità di genere, perché uno dei fattori fondamentali per un mercato del lavoro più inclusivo è lavorare sulle opportunità di accesso di tutte le persone ai diversi settori. Questo significa che si può operare in un’ottica di terzo settore anche creando connessione tra le aziende e facendolo attraverso il mondo della formazione per produrre contenuti inclusivi. È fondamentale che tutto vada messo a sistema, coinvolgendo le comunità perché la loro voce è fondamentale. «Nothing about us without us» significa proprio questo: attivarci valorizzando le comunità e portando al tavolo le urgenze del momento, creando progetti anche in grado di fare funding, di creare un valore anche economico che ritorni alla comunità.
Parlando proprio di campagne di funding avete anche esperienze con il mondo delle donazioni?
Sì, ma non vi entriamo direttamente noi in contatto, piuttosto lo facciamo seguendo campagne di comunicazione che contemplino una restituzione per la comunità di interesse. Ad esempio abbiamo seguito la campagna mondo di Lidl, che ha degli aspetti molto delicati, volendo mettere insieme due temi importanti: il transgender con il credo e la religione. Il sistema era portare al tavolo le comunità di riferimento, in particolare il mondo trans cattolico, per capire come dovesse essere rappresentato senza finire fuori fuoco. Lidl ha poi ha collegato una Capsule Collection che è andata a sostenere comunità internazionali gay e trans.
Diversity è nata come no profit. Oggi è una fondazione di cui lei Francesca è presidente. In questo passaggio, oltre ai progetti che immagino continuerete a portare avanti, ci sono attività e iniziative principali che la fondazione ha l’obiettivo di mettere in campo?

Zero Calcare e Francesca Vecchioni
Credit: Virginia Bettoja
Diversity è un universo composto da una fondazione e da una società. La questione di fondo per noi è cercare di creare sinergie e progetti per collegare varie realtà e rendere poi reali i processi di trasformazione nella società. Per fare questo mettiamo in campo tutte le connessioni che abbiamo, promuovendo diverse attività, legate anche alla formazione, oltre a lavorare sul branding che è fondamentale. Il nostro obiettivo rimane quello di far comprendere alle aziende che fare diversity e inclusione è una sorta di nuovo darvinismo: se non lo fai ti estingui, non ti evolvi.