Con gli incentivi previsti dal PNRR sul gender equity, le imprese hanno l’opportunità di ridurre il divario rispetto alle altre nazioni. Florinda Scicolone, giurista d’impresa, ci spiega perché la presenza femminile è un driver di miglioramento dei bilanci aziendali.
Secondo il Rapporto Globale sul Divario di Genere pubblicato quest’anno dal World Economic Forum, l’Italia è 63esima su 146 nazioni, mentre è al 110° posto per quanto riguarda aspetti economici e opportunità riservati alle donne. C’è insomma ancora molto da fare per raggiungere la gender equity, sebbene qualcosa all’orizzonte si sta muovendo.
Il PNRR ha infatti introdotto la certificazione della parità di genere per le aziende, “figlia” della legge Golfo-Mosca (la 120 del 2011), con la quale erano state introdotte le “quote rosa” obbligatorie nei cda di imprese quotate e partecipate. Ne abbiamo parlato con Florinda Scicolone, giurista d’impresa, esperta in normative compliance e in diversity and inclusion aziendale.
In che modo la scelta di acquisire una certificazione relativa alla parità di genere, rientra nelle attività di sostenibilità aziendale?
Siamo nel periodo di pieno adempimento dell’Obiettivo 5 dell’Agenda ONU 2030, valido non solo per gli Stati ma anche per le aziende. La chiave italiana alla parità di genere si muove dunque in un ambito universale di politiche di sostenibilità, che riguarda anche le imprese che fanno business.
Come si è arrivati a una certificazione della parità di genere?
Per l’Italia è stato un percorso storico iniziato con la legge Golfo-Mosca, che è stata un successo enorme: l’ultimo rapporto Consob parla del 42,8% di presenze femminili nei consigli di amministrazione. Con quella legge ha avuto inizio un cambiamento culturale epocale. Fino al 2011 non avevamo nessuna normativa del genere, poi è intervenuta la legge 120 – legge obbligatoria, è bene sottolinearlo – che ha inciso sulla governance delle aziende con il controllo della Consob: alla terza non conformità, è previsto il decadimento del cda. Diversamente dalla Golfo-Mosca che si applicava solo alle società quotate e partecipate, l’attuale certificazione della parità di genere si applica a tutto il mondo del lavoro ed è volontaria. Nonostante la non obbligatorietà, possiamo però dire che la certificazione è un obbligo “de facto”.
In che senso? Ci spieghi meglio.
Per le aziende in cui ci sono donne meritevoli, la presenza femminile è un driver di miglioramento dei bilanci. Questo è indubbio. La parità di genere è un asset di investimento: le aziende devono vederla in quest’ottica. La normativa appena approvata si innesca in questo meccanismo: ha base premiale per quanto riguarda la contribuzione e la partecipazione a bandi nazionali ed europei. Di conseguenza, un’azienda che vive di bandi sa che non possedere una certificazione di questo tipo significa non essere competitiva per almeno due ragioni: la prima perché non acquisisce il punteggio che, diversamente, avrebbe ottenuto se fosse stata certificata per la parità di genere, il secondo perché gli stakeholder e i consumatori premiano le aziende che dimostrano attenzione a certe tematiche. Dobbiamo quindi ancora una volta rivolgerci agli uomini: nelle imprese sono ancora loro, per la maggior parte, a ricoprire ruoli di governance.

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Cosa comporta la certificazione in termini di costi-benefici?
Possiamo comprenderla a pieno titolo fra le attività di CSR, in quanto rientra nelle normative compliance: le politiche femminili vanno viste infatti come parte integrante delle attività di governance. In termini di costo, è un investimento perché l’azienda dovrà rivedere gli organigrammi, investire in formazione, promozione e inclusione per le donne (non solo in posizioni apicali), rivedere la disparità salariale. Significa investire per bilanciare il rapporto vita privata-lavoro attraverso smart working, asili aziendali e flessibilità. Tutto questo ha certamente dei costi, ma porta grandi benefici perché l’azienda che investe in politiche sostenibili di inclusione femminile viene premiata dallo Stato, dagli stakeholder, dai consumatori.
Il PNRR prevede incentivi per questo tipo di certificazione?
Tra i meccanismi premiali per le aziende coinvolte nei progetti del PNRR vi è anche la certificazione di parità. Più che un incentivo economico, è un meccanismo premiale per quelle aziende che – con la certificazione di parità – partecipando ai progetti del PNRR otterranno un punteggio maggiore nei contratti per servizi e forniture. Per ottenere dei vantaggi, queste aziende dovranno possedere anche altri requisiti, come il rating di legalità. Il PNRR ha previsto finanziamenti, invece, per le politiche di imprenditoria femminile: sono certa che anche il nuovo governo metterà a disposizione fondi in tal senso.
La normativa sarà una garanzia contro il “gender-washing”, ossia contro slogan a favore della parità di genere ma privi di sostanza?
La normativa funziona in maniera concreta. Le imprese pubbliche e private devono impegnarsi per ottenere la certificazione su sei aree:
1) Cultura e strategia
2) Governance
3) Processi HR
4) Opportunità di crescita e inclusione delle donne in azienda
5) Parità salariale
6) Tutela della genitorialità e conciliazione vita familiare-lavoro
Per verificare l’attuazione e i miglioramenti nell’ambito delle politiche di inclusione femminile, un ruolo determinante è svolto dall’informativa obbligatoria che le aziende trasmettono periodicamente alle consigliere di parità territoriale e alle organizzazioni sindacali interne. Penso che in Italia sarebbe importante istituire un’authority indipendente per la parità di genere. Se guardiamo a livello europeo, in tema di sostenibilità è già in vigore una normativa per le grandi imprese: si tratta della DNF (Dichiarazione non Finanziaria), una rendicontazione in cui si riportano aspetti di carattere sociale e ambientale: sostenibilità aziendale, gestione del personale (tra cui politiche aziendali orientate alla parità di genere), impegno nella lotta alla corruzione e rispetto dei diritti umani.